Filippo Dal Fiore

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Capitale globale contro esigenze locali

April 6, 2012
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Non glielo avessi mai detto. Ma forse lo avrebbe fatto lo stesso. L’autista sfreccia spericolato sui viali di Milano, cercando di non farmi perdere il treno. In un battibaleno siamo gia’ in stazione Centrale: scendo e mi affretto verso i binari al piano superiore. Fine della corsa: un’enorme scala mobile fiancheggiata di negozi si para sulla mia strada, non sale dritta ma in uno strano e lunghissimo zig-zag. Cerco le indicazioni dell’ascensore, ma non le trovo. Non mi resta che prendere l’improbabile nastro, che mi costringe ad ammirare le diecine di nuovi negozi di questa stazione ferroviaria recentemente tramutata in centro commerciale.

Arrivato al binario, scopro che il treno e’ in ritardo. Poco male, mi dico, ne approfitto per comprare uno di quei eccezionali panini che vende il supermercato sui primi binari. Mi giro e scopro a malincuore che la rivendita di panini e’ sparita: al suo posto, Geox. Rimango colpito da come le ragioni commerciali siano riuscite a prevalere su ogni logica di buon senso: in una stazione ferroviaria dovrebbero avere precedenza le vie di accesso e deflusso dai treni, non da ultimo per ragioni di sicurezza. Le rivendite di bibite e panini rispondono a un bisogno immediato dei viaggiatori; assumo che chi prende un treno sia gia’ dotato di scarpe…

A proposito di scarpe. Sono in cerca di un nuovo paio nel centro di Padova. Finisco in una bottega storica di corso Vittorio Emanuele. Il titolare chiacchiera e mi racconta di come molti negozi del centro siano a rischio estinzione: arrivano i grandi marchi con tanti soldi e si comprano i loro spazi. Sommariva, bellissimo caffe’ e pasticceria storica, ha appena venduto a Tommy Hilfinger, e la stessa fine potrebbero farla presto i colleghi di Baessato. A suo tempo, Ricordi Media Store, storico negozio di musica, aveva gia’ ceduto a Prada. Beni di lusso e di alto profilo scalzano esercizi commerciali orientati alla socializzazione e alla cultura.

In assenza di politiche di contenimento e di visioni alternative sembra che nel mondo odierno tutto sia destinato a soccombere a logiche esclusivamente commerciali. I grandi capitali hanno talmente “bisogno” di essere investiti, che in assenza di paletti spazzano qualsiasi resistenza. Potrebbe andare bene se queste dinamiche fossero allineate con i bisogni piu’ importanti della maggior parte della popolazione, nel rispetto e nella valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale. Non e’ questo il caso il piu’ delle volte: aree verdi su cui si potrebbero costruire parchi a beneficio di tutti vengono sacrificate ad enormi edifici contenenti moderni uffici, negozi, residenze e hotel, che non si capisce quanto possano essere utilizzati e da chi. Il tutto si trascina dietro altrettanto enormi vie di accesso, strade, rotonde, ponti, parcheggi, stazioni di servizio e di ristoro. I committenti sono sempre piu’ spesso i grandi gruppi multinazionali, distanti dal territorio e pilotati da un’urgenza di crescere ad ogni costo per soddisfare ancora piu’ lontani investitori e portatori di interesse. Si concorre per il portafoglio dei cittadini: fatta 100 la capacita’ di spesa dei visitatori di Padova, i pochi giganti globali competono direttamente con le molte botteghe locali, prefigurando uno scenario per cui se prima del profitto totale beneficiavano in 100, adesso ne beneficiano in 10. Posto che il cambio di offerta commerciale puo’ impattarne la domanda: non trovando piu’ Sommariva e Baessato in molti potrebbero rinunciare alla socializzazione dell’aperitivo; trovando Prada in pochi si concederanno una borsa di lusso.

Sembra quindi che l’entrata dei grandi marchi multinazionali nelle economie locali abbia, tra molte altre, due conseguenze importanti: da una parte la concentrazione dei profitti in meno tasche, frontiera elitistica del capitalismo che si auto-alimenta (saranno le stesse elite che poi acquisteranno da Prada); dall’altra l’allontanamento della nuova offerta commerciale dai bisogni e dalla cultura del territorio. La logica commerciale di molte imprese multinazionali a partecipazione azionaria e’ puramente quantitativa: se il proprietario di un’attivita’ locale potrebbe preoccuparsi delle tante qualita’ della propria citta’ (se non altro perche’ vi ci risiede), gli stakeholders lontani potrebbero essere esclusivamente preoccupati che cresca il valore delle proprie azioni (se un’azienda quotata non cresce potrebbe presto essere venduta o fallire).

Un’altra possibile conseguenza di tale orientamento esclusivo ai volumi e’ che le aree urbane vengano sempre preferite alle altre per ogni tipo di investimento commerciale. Piu’ la citta’ e’ grande, piu’ ci sono soldi da fare, piu’ e’ interessante. In assenza di interessi personali da parte del potenziale investitore, piu’ una citta’ e’ piccola, piu’ diventa irrilevante. Ed e’ anche forse per questo motivo che il divario tra centri e periferie incrementa sempre di piu’, e lo sviluppo del mondo odierno e’ sbilanciato verso le grandi aree metropolitane. Stando ad alcune stime, nel 2050 il 70% della popolazione mondiale potrebbe vivere all’interno di una qualche urbanizzazione.

Come prevedibile, inoltre, il fenomeno di espropriazione di risorse e infrastrutture locali da parte dei capitali globali non si limita ai settori commerciali. Intacca anche il settore abitativo: acquisendo immobili nelle localita’ piu’ desiderate e prestigiose, le elite mettono fuori mercato le popolazione locali. Basti pensare a molte giovani coppie di Venezia, Cortina o Parigi: sarebbero felici di costruire famiglia nelle loro citta’, ma sono costretti a farsi da parte per i prezzi troppo alti pagati da persone benestanti non locali che cercano un pied-à-terre da utilizzare poche volte l’anno. A riprova della lontananza del capitale globale dai bisogni del territorio.

A questo punto, la soluzione sembra ovvia: ci vuole piu’ politica, piu’ norme per tutelare il territorio. Citta’ e regioni dovrebbero alzare i paletti e dotarsi di una nuova vision del futuro. Non fosse altro promuovendo esercizi commerciali che fondono tradizione locale e nuove sensibilita’, come la boutique “Ethik kusst Asthetic” (“L’etica bacia l’estetica”) in cui mi imbatto nel cuore di Zurigo, o il negozio d’abbigliamento “Natura” che scopro a Santiago di Compostela. Il problema sembra essere quello che molte amministrazioni locali non vedono molte altre opzioni per fare cassa e creare nuovi posti di lavoro che non quella di aprire le porte ai capitali globali. Capitali che a volte arrivano da attivita’ illegali in altre zone del mondo, e hanno un’urgenza di essere smaltiti. Quello che leggo e’ che dietro parte della cementificazione in corso in regioni italiane quali il Veneto, la Lombardia o il Lazio si nascondono anche i soldi delle mafie meridionali. Dietro parte dei bar rilevati da cittadini cinesi, si potrebbe nascondere il denaro della mafia cinese. In Spagna si parla ormai di “ghost towns”, costruite dalla bolla immobiliare e per nessuno. Nei paesi emergenti e in via di sviluppo, lo stesso problema potrebbe assumere dimensioni colossali. Purtroppo, con la svendita del territorio si sancisce la definitiva sconfitta sia della politica che dell’economia: la prima perche’ non tutela e non offre visioni alternative; la seconda perche’ non risponde a nessun tipo di bisogno, contro ogni logica di buon senso.

Il paradosso e’ che con tutti questi nuovi edifici e strade scintillanti in molti siamo portati a credere che si stia andando nella direzione giusta, quella dell’”inevitabile” modernizzazione. Nessuno vuole negare che, nella giusta dose, l’architettura e il design moderni non portino nuova bellezza, energia e vitalita’ alle nostre citta’. Nei modi corretti, le grandi catene commerciali contribuiscono ad abbassare i prezzi per i consumatori, elevare un certo standard di servizio e creare lavoro nei paesi piu’ poveri del mondo. Se ben utilizzata, una certa concentrazione di capitale nelle mani di pochi puo’ diventare massa critica per le grandi innovazioni del futuro, piuttosto che per fondazioni culturali o iniziative umanitarie. Il punto, a mio avviso, e’ proprio questo: nei giusti modi e nella giusta misura. E con grande sensibilita’ culturale ed etica.

Capitale globale? Si’, ma come, dove e quando decido io, il territorio. Nel frattempo, consoliamoci nel fatto che, da quel che sembra, tutto il mondo sia nella stessa barca: se e’ vero che se non controllati i capitali globali possono giocare a sfavore dei singoli territori, e’ anche vero che i capitali globali, per definizione, uniscono e accomunano il mondo. Se oggi non abbiamo guerre mondiali, forse e’ anche merito della globalizzazione.

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