Filippo Dal Fiore

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Gli altri che noi siamo

August 17, 2014
persone, arcobalenonet.it

Pensa che bello sarebbe il mondo se non lo giudicassimo. Se ci limitassimo ad osservarlo, trattenendo le considerazioni più dure verso gli altri, verso noi stessi e verso le situazioni che ci si propongono. Se ci focalizzassimo di più quello che va per il verso giusto, piuttosto che diventare prigionieri di quello che manca e che non ci piace.

Questi pensieri prendono ispirazione dalle mie recenti esperienze di volontariato, attraverso cui assisto in prima persona alcuni senzatetto e anziani soli della mia città.
Nel momento in cui mi aggrego al gruppo di volontari in un impegno così umile, viene meno qualsiasi bisogno di dimostrare il mio valore o fare bella figura. Non mi sento giudicato, e senza l’interferenza di timori mi resta solo la voglia di scherzare e di darmi da fare.

Penso poi alla mia avventura professionale in Great Place to Work, e alla nostra indagine internazionale da cui emerge che uno dei fattori maggiormente correlati al benessere sul lavoro sia “la possibilità di essere sé stessi”, ovvero non sentirsi costantemente giudicati. Penso infine a una certa sensazione liberatoria provata durante il recente trasloco familiare da un condominio molto attento a mantenersi “signorile”, a un altro che qualcuno potrebbe considerare più “popolare” ma i cui residenti non devono dimostrare niente a nessuno.

E’ curioso, perché ancor più nella sua deriva ultra-moderna e americanizzata, la nostra società sembra portarci nella direzione opposta a quella dell’accettazione, ovvero quella dei talent show e degli assessment aziendali in cui siamo sempre tutti giudicati su un banco di prova. Uno dei messaggi portanti, implicito e pervasivo, è quello che per dare senso alla propria vita occorra essere in qualche modo speciali, unici, famosi, distinti per qualche genere di talento e iniziativa personale. Per far questo inneschiamo un pericoloso confronto con gli altri (siamo all’altezza?), un gioco al rialzo di giudizi incrociati che ci rende seri e timorosi. Internalizzando il giudizio sociale, in molti sentiamo il bisogno di essere persone straordinarie per essere degne di considerazione e di amore, piuttosto che, semplicemente, persone ordinarie, tali e quali tutti gli altri anche se con diverse vicissitudini.

Eppure, i momenti in cui ci sentiamo più liberi sono forse proprio quelli in cui percepiamo la comunanza e la fratellanza di chi ci circonda. In questi momenti non ci sentiamo più soli – sopra il piedistallo o dentro la fossa che ci siamo nel tempo costruiti – e senza questa solitudine vengono anche meno tante delle preoccupazioni che ci consumano tanta energia. In un certo senso viviamo e basta, e non ha senso chiedersi quale scopo o tono dare alla nostra vita. Liberi da pregiudizi, paure e intolleranze, è forse anche più facile realizzare quello che ci prefiggiamo ed essere noi stessi, così come riusciamo a esserlo in quei gruppi di amici la cui compagnia ci restituisce buon umore e comprensione alla pari.

Certo, fosse facile mantenere le distanze da quell’ideologia individualista che sembra essere sempre più pervasiva e dominante.
La nostra società occidentale si fonda sull’etica cristiana della virtù, da costruirsi in contrapposizione a difetti e “peccati”. La nostra cultura del giudizio e delle rigide doverizzazioni  (devo, devi, dobbiamo…) discende forse anche e soprattutto da un’etica “monoteista” di questo tipo, che ha svolto un’importante funzione storico-evolutiva.
Arrivati a questo stadio di sviluppo, però, sembra che questa etica possa ostacolare il nostro progresso emotivo e spirituale, ovvero ci ostacoli nell’accettazione di noi stessi. Continuando a giudicarci, continueremo a reputarci inadeguati?

Immagine: ©arcobalenonet.it

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