Filippo Dal Fiore

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La rivoluzione della sostenibilità (10): di che colore è il profitto?

July 11, 2018
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La prima settimana di corso si gettano le fondamenta. Il mio percorso di Sustainable Business, in realtà, non prevede molta teoria, perché ritengo che oggi più che mai occorra dare comprendere le cose dall’interno, empiricamente e scientificamente, prima ancora che interpretarle dall’esterno di maniera discrezionale.

Fisso però un punto di ancoraggio accademico alla mia trattazione, in una teoria che più di ogni altra risulta oggi determinante nel mondo dell’economia. Introduco gli studenti alla teoria cosiddetta della shareholder primacy, che afferma che gli interessi degli azionisti abbiano la priorità rispetto a quelli di tutti gli altri stakeholders (portatori di interesse) di un’impresa. Si assume che gli investitori siano i proprietari delle aziende e per questo motivo la gestione delle aziende debba essere orientata verso la generazione del massimo ritorno economico per loro, ovvero alla massimizzazione dei profitti o utili. Tra tutti gli obiettivi che un’azienda si potrebbe porre si eleva sopra gli altri quello del profitto. Non si tratta solo di crescere – la crescita si misura attraverso l’aumento dei volumi di venduto – ma di crescere massimizzando la differenza tra entrate e uscite.

Una volta compresa l’origine storica di un’ideologia che più forse più di ogni altra avrebbe segnato lo sviluppo (involuzione?) del capitalismo moderno, passo in rassegna con gli studenti i suoi principali corollari. Risulta infatti evidente che il singolo incipit della massimizzazione del profitto modifichi l’intero DNA dell’impresa moderna, che definirei “iper-capitalistica” proprio per l’attenzione posta sulla profittabilità. Orientamento alla crescita, all’efficienza, all’automazione, all’innovazione, alla consolidazione, alla riduzione dei costi, all’aumento delle entrate: il tutto per “fare più soldi possibile” per sé stessi e per gli azionisti, nell’ipotesi che questo sia il solo mezzo per continuare ad investire e rimanere competitivi.

In assenza di fini ulteriori, la logica della massimizzazione del profitto risulta cieca e, come tale, fuori controllo. Può fare del bene al mondo, quando orienta i singoli e le organizzazioni ad un sano focus sui bisogni dei clienti e sull’efficienza; può anche fare molti danni, allorquando si diventa disposti a fare di tutto, e in qualsiasi condizione, per il proprio guadagno. In assenza di esigenti normative e standard, le scorciatoie a disposizione sono molte, perché le imprese non sono chiamate a prendersi carico dei danni inflitti altri portatori di interessi: in primis, all’ambiente fisico in cui operano; in seconda istanza, a tutte le persone che in qualche modo contribuiscono al suo operato, ovvero collaboratori, clienti e comunità locali.

Nella corsa cieca ed esasperata a far risplendere i conti aziendali e personali, imprenditori, manager, consulenti e investitori potrebbero finire per non rendersi più conto di quello che fanno e perchè. Il recente e clamoroso processo di finanziarizzazione dell’economia – con un eccesso di capitale concentrato nelle mani di investitori alla ricerca di nuove opportunità per far aumentare quel capitale stesso – ha contributo ad esercitare nuove pressioni sul mondo dell’industria. Il mondo globalizzato si è visto esponenzialmente danneggiato su più piani, collateralmente all’agire “nel proprio interesse” di molte grandi imprese:

- corsa allo sfruttamento di risorse naturali e umane laddove è meno costoso
- lobbying politica per bloccare normative che sono nel pubblico interesse, ma che impongono costi alle aziende
- azioni di forza contro aziende o iniziative concorrenti (attuali o potenziali), attuate in molteplici modi anche e soprattutto a danno del tasso di innovazione espresso dal settore
- evasione fiscale attuata su scala globale, attraverso nuove tecniche contabili che sfruttano le incongruenze (loopholes) tra i diversi regimi fiscali nazionali
- utilizzo di tecniche di marketing sempre più subdole e degradanti nei confronti della dignità umana
- utilizzo dell’automazione, nella fase di produzione o erogazione dei prodotti/servizi, in maniera indiscriminata
- crescita del grado di complicazione dei prodotti e della loro grandezza fisica, a giustificare un prezzo maggiore, anche senza necessità o valore aggiunto
- spostamento dell’attenzione verso prodotti più profittevoli, anche se questo avviene a danno dell’ambiente (es. i SUV per l’industria automobilistica) o dei segmenti “inferiori” di clientela (es. i più costosi treni ad alta velocità che sostituiscono gli interregionali)

Per comprendere quanto il focus sulla massimizzazione del profitto possa cambiare radicalmente la prospettiva sul fare impresa, suggerisco un esercizio in cui ciascuno di noi, come persona, si domandi che cosa farebbe domani se il suo unico obiettivo professionale diventasse quello di aumentare il più possibile le proprie entrate, abbassando il più possibile i propri costi. Io mi do queste risposte:

- lavorerei solo per quei clienti che pagano di più, a parità di sforzo
[ma il punto discriminatorio è: chi sono questi clienti? Cosa mi domandano e dove mi porteranno?];
- cercherei modi nuovi per fare le cose più velocemente e per pubblici più ampi
[ma il punto discriminatorio è: sacrificherei la qualità del mio lavoro? Mi adeguerei alle mode del momento?]
- commissionerei ad altri le fasi più laboriose e meno redditizie del mio lavoro, per focalizzarmi o re-orientarmi verso attività più redditizie
[ma il punto discriminatorio è: continuerei a valorizzare la mia unicità e potenziale?]
- punterei a mantenere il mio guadagno per me e per la cerchia dei miei partner, anche considerati tutti gli sforzi fatti per accumularlo [ma il punto discriminatorio è: è questo ciò di cui l’intera società ha bisogno?]

Posso concludere che il focus sulla massimizzazione degli utili rappresenterebbe un’importante distrazione rispetto al cammino da me avviato, specie rispetto alla sua originalità e focus sui bisogni percepiti. Nonostante tutto, riconosco l’importanza di una riflessione approfondita su quanto siamo pagati e per fare che cosa, doverosa per comprendere se il lavoro che si fa sia valorizzato e riceva la meritata attenzione da chi ne beneficia. A ben vedere, dovremmo forse astenerci dal mettere sul banco degli imputati il profitto (in quanto denaro, rappresenta un credito di fiducia che la società ci dà per fare o acquistare di più), ma piuttosto limitarci a criticare i modi e i fini attraverso cui il profitto viene generato.

Il profitto dovrebbe essere visto come il risultato di un buon lavoro, piuttosto che come il fine dello stesso, spostando il focus, per l’appunto, sul buon lavoro. Diventa inoltre fondamentale esaminare come il profitto accumulato viene poi utilizzato, di maniera più o meno utile a noi stessi e alla società. Come abbiamo generato il nostro profitto? In che modalità di rapporto con la società? Ora che beneficiamo di questo credito dalla società, lo utilizziamo con intelligenza e senso di responsabilità?

Immagine: https://it.wikipedia.org/wiki/Colore#/media/File:Colouring_pencils.jpg

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