Filippo Dal Fiore

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Il duro mestiere dell’innovatore

July 10, 2009
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In questi anni di permanenza nel mondo della ricerca, ho sempre cercato il contatto con il mondo esterno, come veicolo per capire come le cose effettivamente succedano, al di la’ delle “fotografie” scientifiche e delle speculazioni teoriche.

Il momento storico e il mio background in comunicazione hanno fatto si’ mi incanalassi quasi naturalmente verso il settore delle nuove tecnologie dell’informazione. Stanno rivoluzionando il mondo, ci veniva detto. Io volevo capire in che modo tale rivoluzione si potesse governare per creare nuove possibilita’ che facessero contente le persone, per come lo ritenessi giusto io. Ho cominciato le mie frequentazioni al MIT, che mi hanno consentito di cominciare a lavorare con chi la tecnologia la stava sviluppando, su questi due fronti:

- un’audio-video guida attraverso la quale visitatori e cittadini potessero navigare le citta’ d’arte attraverso voci e racconti degli abitanti del luogo (di cui avremmo presentato il prototipo alla Biennale d’Arte 2005);
- un servizio di visualizzazione delle attivita’ urbane, costruito sulla base dei dati aggregati e anonimizzati generati dai nostri telefoni cellulari, per monitorare in tempo reale la presenza e i flussi di persone. Obiettivi: agevolare operazioni di soccorso in caso di emergenza, quantificare la popolarita’ delle opere pubbliche, individuare gli sprechi di energia relativi alla presenza delle persone (una sorta di “grande fratello buono”, attualmente promosso attraverso la mia fondazione, Currentcity).

In entrambi i progetti, ho recitato la parte dell’”uomo di marketing”, colui che, non sapendo sviluppare la tecnologia, si occupa di capire il modo in cui questa possa risolvere dei problemi esistenti o rispondere a un bisogno. Piu’ acquisisco esperienza in questa professione, piu’ mi rendo conto di quanto difficile sia il mestiere dell’innovatore, per lo meno in un ramo tecnologico sempre piu’ inflazionato come il nostro.
Darei forse la priorita’ a tre grandi questioni su altre:

- la capacita’ di convincere il futuro utilizzatore dell’utilita’ del nuovo servizio.
Al riguardo concorrono due ordini di fattori: da una parte l’esplosione caustica di ogni genere di tecnologia, parallelamente alla diminuzione del tempo utile per utilizzarla; dall’altro il fatto che, piu’ avanzata e’, meno e’ indispensabile;

- la capacita’ di convincere i finanziatori della bonta’ della propria idea.
Qui vedo due ordini di problemi: da una parte questi devono esistere (e da questo punto di vista al futuro imprenditore conviene rimanere in USA); dall’altra si deve essere in grado di convincerli in termini prettamente finanziari (a fronte di un tuo investimento X guadagnerai Y). Tale esercizio e’ quanto mai difficile per gli accademici che, forse nella maggior parte dei casi, portano avanti la ricerca sulla base delle proprie passioni e principi, piuttosto che sui dati di mercato;

- la capacita’ di trovare dei collaboratori a cui delegare capacita’ decisionale nelle aree che non sono di propria competenza. Per molti innovatori, questo comporta il superare una umana attitudine protettiva ed eccentrica (in America, con orgoglio, l’invenzione diventa “my baby”), nonche’ risolvere il problema della mancanza di tempo, per chi vuole continuare a fare anche l’accademico.

Last but not least: fiducia, energia ed ottimismo costanti, sottostimando le difficolta’ e pensando che le cose andranno per il verso giusto (credendo che i Google siano piu’ la norma che l’eccezione!). Il dramma e’ che l’innovatore e’ obbligato a tale approccio nel bene e nel male: se il successo arriva, l’ottimismo avra’ portato i suoi frutti; se tarda ad arrivare, meglio continuare ad essere ottimisti, perche’ mollare a quel punto equivarrebbe ad avere sacrificato un sacco di tempo ed energie per nulla. E cosi’ tanti innovatori continuano a trascinare i piedi nella sabbia, troppo emozionalmente “dentro” la propria idea per poterne vedere obiettivamente i problemi ed accettarli, verso possibili soluzioni.

In ogni caso, l’universita’ e’ un mondo pieno di idee, perche’ e’ un mondo pieno di giovani. E il mondo reale puo’ rappresentare un’opportunita’ unica di apprendimento per il ricercatore, se non altro per sprovincializzare la propria visione del mondo. Ogni volta che una bella idea muore sui banchi mi piange il cuore: finiscono i fondi per la ricerca, finisce l’idea.

Speriamo che il futuro ci porti canali piu’ fluidi per trasformare le idee in realta’. Speriamo anche che si facciano sempre piu’ largo nuove forme di imprenditoria, per cui le idee socialmente ed eticamente utili siano sempre di piu’ e si possano realizzare anche se non si riesce a passare il test del mercato. Sulle orme di Muhammad Yunus, premio nobel per la pace per le sue idee sulla micro-finanza e il business sociale.

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