Filippo Dal Fiore

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La difficile ricerca della certezza

January 20, 2010
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Padova. Una madre, un padre e un figlio di 20 giorni.
Ti svegli di notte, il piccolo ha la febbre, sale a 39, nell’incertezza corri all’ospedale. Diagnosi: trovata quantita’ ridotta di batteri Escherichia Coli, probabile infezione delle vie urinarie, ma non si possono escludere problemi renali piu’ gravi. Azione: immediata ospedalizzazione, della durata di una settimana, per piccolo e madre; cura antibiotica di 6 mesi al piccolo, per mantenere condizioni necessarie affinche’ un esame renale successivo vada a buon fine. L’esame avra’ esito negativo. Il padre sono io.

Padova. Una madre, un padre e un figlio di 1 anno e 20 giorni.
Dolori persistenti alla bocca dello stomaco per la madre, dopo i pasti serali e di notte. Chiami l’ospedale. Diagnosi telefonica: potrebbero essere molte cose. Azione: facciamo tutti gli esami possibili per verificare le condizioni dell’area corporea in questione; facciamo anche un’ecografia e una gastroscopia, non si sa mai.
Siamo in attesa degli esiti. Il padre sono sempre io. Vi sto raccontando la mia limitata recente esperienza con il mondo ospedaliero in Italia.

Qui reparto: nell’incertezza, pregasi fare tutto il possibile.
Lente di ingrandimento sulla parte dolorante, meno interesse verso quello che vi sta intorno: interdipendenze con altri organi, con la psiche, con la storia del paziente. Pubblicazioni scientifiche alla mano, la diagnosi medica si appoggia su un calcolo delle probabilita’ e lo 0.001% non puo’ escludere un’eventualita’ negativa. E’ necessario controllare, anche se il paziente ricade appena al di fuori del campione a rischio.
Il fine giustifica i mezzi. I problemi creati al paziente passano in secondo piano rispetto alla missione medica: l’investimento psicologico, di tempo e di denaro per i tanti esami e cure; le spese per i farmaci e i loro effetti indesiderati; la possibile rottura di delicati equilibri famigliari e sociali importanti per il benessere della persona.

Credo che rispetto ed ammirazione per le meraviglie della medicina nei paesi avanzati sia un atto dovuto di gratitudine verso chi si e’ preso carico di una responsabilita’ tanto importante come la salute delle persone. In questo contesto, pero’, mi interessa capirne di piu’ rispetto a un approccio medico che sembra ansioso e preventivo, nonche’ “riduzionistico” sui valori fuori norma piuttosto che “olistico” sulla situazione della persona. Un metodo giustificato e che contribuisce a salvare molte vite, ma che forse si puo’ integrare con altri ed essere reso un po’ meno dogmatico. Un approccio che probabilmente contraddistingue altri paesi avanzati (come gli USA, dove ho un’esperienza simile), ma non tutti. Mi si racconta che in Olanda, la filosofia di fondo della missione medica e’ quella del non-intervento, fino a quanto questo non diventi assolutamente necessario.

Un ordine di ragioni che sembra favorire l’approccio interventista e’ di natura finanziaria: piu’ esami, operazioni e medicinali si prescrivono, piu’ aumentano gli incassi degli ospedali, dei medici e delle aziende farmaceutiche. Un altro e’ legale: meglio fare tutto il possibile per evitare che qualcosa vada storto e finire per essere denunciati.
Per mia formazione, mi interessa pero’ approfondire il ruolo giocato dall’analisi scientifica e dal buon senso ruolo in campo medico. Mi chiedo: quanto buon senso c’e’ quando si prescrivono 6 mesi di terapia antibiotica a un neonato di 20 giorni vittima di una febbre di qualche ora?
Ben intesi, di buon senso ce ne potrebbe essere poco, ma la terapia potrebbe essere comunque assolutamente necessaria. La domanda, pero’, resta.

Per iniziare a cercare una risposta, credo occorra fare un passo indietro e comprendere come vengono effettuati gli studi scientifici sulle malattie, quelli che consentono di associare i sintomi del paziente a delle cause. La mia limitata esperienza di ricercatore nelle scienze sociali mi ha insegnato che la determinazione di cause ed effetti e’ dei piu’ grandi grattacapi della scienza, anche e soprattutto perche’ il piu’ delle volte non vengono considerati e misurati tutti i fattori che concorrono al problema.
La mia esperienza con le regressioni – statistiche che misurano la correlazione tra fenomeni osservati su piu’ soggetti – e’ stata disarmante: il risultato iniziale mi diceva che il fattore X era causa “statisticamente significativa” del mio fenomeno; non appena pero’ inserivo nuovi potenziali fattori esplicativi nell’analisi, il nuovo risultato mi diceva che il fattore X era scomparso dall’essere causa statisticamente significativa!
Quello che spiega un fenomeno e’ quindi “spiegabile” attraverso altre variabili che magari il ricercatore non arrivera’ mai ad individuare e a misurare. Disarma non solo il rischio di prendere fischi per fiaschi, quanto il rendersi conto che una causa apparente possa dipendere da altre cause invisibili piu’ a monte. Crediamo che il problema stia in una certa cosa e per certi versi abbiamo ragione; il punto e’ quella cosa e’ il frutto dell’interdipendenza con altre, che potrebbero presentarsi diversamente da soggetto a soggetto.

Per questo motivo il medico di Harvard Atul Gawande afferma che ogni manifestazione di malattia e’ unica, e come tale va trattata per i sintomi che manifesta nel soggetto. Perche’ un paziente non sara’ mai identico a un altro. Ed e’ li’ che interviene il buon senso, a mio avviso, insieme all’intelligenza e alla sensibilita’ umane: ad allargare gli orizzonti. A dirci che le cose, forse, non sono cosi’ lineari come potremmo pensare.
La complessita’ e’ talmente grande che i risultati pubblicati nelle riviste scientifiche non bastano: il medico dovra’ raccogliere nuove informazioni e attingere a nuovi canali per analizzare la situazione e per sintetizzarla. Non posso saperlo, ma immagino che questo processo raggiunga il suo culmine nel corso delle operazioni chirurgiche piu’ complesse…

Per concludere, sembra che la societa’ moderna, come il metodo scientifico, non possa tollerare l’incertezza e faccia di tutto per annullarla. Dopo il mancato attentato sul volo Amsterdam-Detroit, i paesi occidentali hanno adottato norme piu’ restrittive per l’accesso ai voli, comprensive di scanner corporeo completo. A fronte del rischio un 1 aereo esploso su milioni e milioni in volo, l’umanita’ si autoinfligge un danno economico (perdita di tempo) e psicologico (perdita di privacy, fatica) dalle dimensioni gigantesche. Si puo’ approvare o meno, ma questa misura preventiva sicuramente colpisce.

Credo che la tenace salvaguardia di ogni vita umana, si trovi essa in un lettino di ospedale o in un sedile d’aereo, possa essere salutata come conquista e faccia onore all’uomo. Il problema e’ che la complessita’ del mondo e’ tale in confronto alla capacita’ conoscitiva dell’uomo e dei computer, che l’incertezza, probabilmente, non cessera’ mai di esistere. Accettarla, rinunciando ai dogmatismi, e’ forse il primo passo per farvi fronte.

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