Filippo Dal Fiore

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La rivoluzione della sostenibilità (3): domanda, offerta ed eccesso di capacità produttiva

July 25, 2016
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Continuando a ragionare di sostenibilità, mi imbatto in una riflessione sull’equilibrio tra domanda e offerta. Si tratta dell’assunto cardine delle economie di mercato, secondo il quale a fronte di una determinata domanda (=richiesta) di beni e servizi si svilupperà la relativa offerta (=fornitura), e viceversa la disponibilità di beni e servizi genererà la loro richiesta. I sostenitori dell’auto-efficienza dei mercati sostengono che affinchè questo possa pienamente avvenire, gli attori operanti nei mercati dovranno poter operare nella più piena libertà, ovvero quanto più immuni da interferenze esterne. In primis: pianificazioni, regolamentazioni e tassazioni imposte da stati nazionali o altre unità governative.

Il mondo che abbiamo sotto gli occhi oggi ci restituisce il portato pratico di tale assunto teorico: i mercati sono sì cresciuti, ma di maniera tumorale, in una rincorsa “cieca” tra domanda e offerta, senza consapevolezza delle tante altre direzioni di sviluppo potenziali
e più necessarie alla società. Lasciate libere di fare quello che già sanno fare meglio, le aziende continuano ovviamente a farlo, a promuoverlo, a innovarlo, a imporlo ai propri clienti e consumatori.

Nascendo come astrazione matematica senza fine ne’ scopo, il mercato idealizzato dagli economisti è un braccio puramente esecutivo, non è pensante, non ha obiettivo ne’ tempo ne’ capacità di riflettere su quello che fa. E’ un contenitore che invece andrebbe regolarmente svuotato e ri-riempito di nuovi contenuti, a partire da una riflessione approfondita sull’evoluzione dei bisogni della società. In altre parole, per evolvere “a buon fine” domanda e offerta di mercato necessitano di essere attentamente pilotate dai sistemi normativi ed educativi delle società in cui operano, a loro volta emanazione del più ampio sistema culturale. A seconda delle necessità, le cieche forze di mercato necessitano di essere calmierate, incentivate, reindirizzate.

A tutt’oggi, invece, avviene il contrario: è il mercato a pilotare la società, con le aziende che avanzano le loro richieste sui sistemi normativi ed educativi dei singoli paesi e del mondo globalizzato. Questo è il dialogo predominante tra mercati (M) e società (S):
M: «Questi sono i diplomati che mi servono e queste sono le leggi» S: «Per che cosa?» M: «Per espandermi e continuare, è ovvio» S: «E il bene della società?» M: «Bene? Cosa intenti esattamente? Io sono già il bene e te lo dimostro».
Ed è così che nell’ultimo decennio abbiamo assistito all’espansione tumorale di settori che lungi dall’avere consegnato nuove libertà alle nostre società hanno ingenerato nuove dipendenze: penso alla finanza e al suo indotto, penso all’informatica e al suo indotto, penso alle costruzioni e al suo indotto, penso alla grande distribuzione e al suo indotto. Con tale sovradimensionamento (=inefficienza), ci siamo ritrovati un eccesso di offerta che per sopravvivere ha creato una sua domanda artificiale, sfidando a colpi di marketing ogni considerazione di buon senso. Al contempo è cresciuta la domanda di attività completamente nuove, a risanamento dei danni creati al corpo della società dalla crescita tumorale dei settori su-menzionati. Tale domanda rimane a tutt’oggi in gran parte inevasa (=inefficienza), per l’ovvia incapacità delle aziende di percepirla e comprenderla. Sono impegnate a fare altro, essendo pagate per fare e innovare, non per mettere in discussione o pensare.

La rivoluzione della sostenibilità è quindi necessaria per riportare il sistema verso un sano equilibrio. E’ necessario insegnare alle persone a fare altro nella vita, altrimenti troveranno modi per imporre la loro expertise con conseguenze per tutti: troppi produttori di cibi industriali creeranno obesità, troppi operatori del cemento creeranno dilapidazioni delle aree verdi, troppi banchieri creeranno indebitamenti. In altre parole è necessario correggere la capacità produttiva: a tutt’oggi siamo in troppi a saper fare quello che abbiamo già (di qui i nostri eccessi sociali), e in troppo pochi a comprendere e saper fare quello in fondo più ci manca (di qui i nostri deficit sociali). Non si tratta solo di correggere il mercato, prendendosi carico dei suoi fallimenti o esternalità negative attraverso il settore governativo o il terzo settore. Si tratta di prevenire a monte il problema, aprendo la strada ai mercati che più desideriamo per il futuro.

Tali mercati dovranno essere gestiti in modo molto più intelligente, in primo luogo tenendo in più seria considerazione la capacità di assorbimento della società. La presenza di troppa competizione in una determinata tipologia di prodotto andrebbe letta come sintomo che quel mercato è a rischio sprechi o crescite tumorali. Si pensi a quanto cibo viene buttato a fine giornata dai troppi supermercati che ci ritroviamo. Si pensi all’offerta esagerata e auto-referenziale di cibi non indispensabili e potenzialmente dannosi, come i dolciumi e le bibite gassate. Piuttosto, varrebbe la pena reindirizzare chi si butterebbe altrimenti a produrre dolciumi verso altre categorie di prodotto, offrendo loro la possibilità di riconvertire il proprio know-how e la propria capacità produttiva. Un’altra misura per tutelare un equilibrio sano tra domanda e offerta potrebbe essere quella di prevedere una sorta di data di scadenza (expiration date) per le aziende, per cui a fronte di una valutazione di convenienza sociale le varie imprese potrebbero essere di volta in volta lasciate in gestione ad altre persone, riconvertite in qualcosa di più utile, o terminate del tutto. Così facendo si limiterebbero le spinte alle rendite di posizione e all’accumulo di capitali inutilizzati, al contempo promuovendo mobilità professionale e occupazione. Si potrebbe addirittura capovolgere la prospettiva, centrandola sullo sviluppo della persona umana: differenti “percorsi evolutivi di contributo sociale” faciliterebbero i singoli in molteplici passaggi formativo-professionali, a beneficio loro e della società tutta.

E’ ovvio che affinchè possiamo contemplare e considerare il nuovo mondo sia necessario liberarsi di schemi cognitivi e culturali tanto artificiali quanto ormai vetusti. Il più delle volte si tratta di semplicistici costrutti di contrapposizione (o uno o l’altro): teorico vs. pratico, mercato vs. stato; liberismo vs. pianificazione; top-down vs. bottom-up, capitalismo vs. comunismo, formazione vs. lavoro, e via così a cascata. Tali artifici linguistici e concettuali ci impediscono di immaginare soluzioni di reciproco beneficio (win-win) per tutti i pezzi di società, perché ci nascondono il fatto che quello appare antitetico è invece complementare nella sostanza. La teoria ha bisogno della pratica, così come la pratica ha bisogno della teoria. Lo “stato” ha bisogno del “mercato”, così come il “mercato” dello “stato”, tant’è che arriverà il momento in cui troveremo una sola parola in cui confluirà l’essenza di entrambi i concetti. E’ quindi necessario evadere dalle prigioni dalla scienza economica: basta dilemmi del prigioniero, giochi a somma zero ed equazioni prive di altro senso, è arrivato il momento di utilizzare l’economia per costruire il più bel mondo possibile.

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