Filippo Dal Fiore

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La rivoluzione della sostenibilità (20): bisogni sociali vs. autoreferenzialità dei mercati

July 23, 2019
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Si allarga la cerchia di giocatori che partecipa alla chat organizzativa del nostro calcetto del mercoledì sera. Io stesso ho costituito il relativo gruppo Whatsapp, nell’ormai lontano dicembre 2017: all’inizio eravamo in 3, ora siamo in 7 ed ultimamente il traffico di messaggi è vorticosamente aumentato. Sopraffatto dalle continue interruzioni sul telefonino, ieri sera ho proposto agli amici di “darci una regolata”.

Ho cercato a lungo, ma non sono ancora riuscito a trovare il modo per selezionare quali gruppi Whatsapp abilitare per le notifiche immediate: tutti i gruppi continuano a segnalare in tempo reale l’arrivo di nuovi messaggi, anche quando posti in modalità “silenzioso”. Di certo desidero un avvertimento a schermo dalle chat di coordinamento famigliare e lavorativo, ma non mi posso permettere di essere distratto in continuazione da discussioni che, per quanto piacevoli e affettuose, non sono urgenti e possono attendere un momento più opportuno. La mia proposta agli amici del calcetto è stata questa: perché non ci limitiamo a usare la chat nelle sole giornate del lunedì e mercoledì quando è più forte l’esigenza di coordinarci? Perché non ci accordiamo su quale principale finalità dare alla chat, se solo di coordinamento o anche di interlocuzione ludica?

Questo evento non solo mi dà una nuova opportunità di riflettere sul potere seduttivo dei social media, ma mi offre l’occasione di ragionare sul tipo di innovazione da loro promossa.
Sul primo fronte, mi chiedo quanto ben spese siano le energie che tutti noi profondiamo quotidianamente nelle comunicazioni digitali: per quanto ricevere molti messaggi ci possa far sentire ben voluti e contribuisca a generare una discreta dose di adrenalina, la mia impressione è che gli scambi estemporanei sul piccolo schermo abbiano anche la potenzialità di “annacquare” le relazioni da cui sono generati. Da una parte non sempre si presta la dovuta attenzione al che cosa si comunica e perchè; dall’altra si propone così tanto di sé stessi da privare di magia i futuri incontri di persona.
Mi chiedo inoltre in che misura il ricorso massivo ai social media possa essere sintomo di una percepita solitudine, paradossalmente alimentata da quella stessa prolungata permanenza della nostra attenzione dentro lo schermo del cellulare/computer piuttosto che nel mondo fisico e umano che ci circonda (e di cui beneficia maggiormente chi ha piena presenza mentale).

Il secondo fronte è quello che più mi interessa nel contesto di questo articolo e riguarda l’economia.
Mi chiedo infatti per quale motivo Whatsapp non offra la possibilità ai propri utenti di gestire con più raziocinio e sofisticazione la generazione e ricezione dei messaggi. Perché Facebook & Co. non innovano i loro servizi in modo tale da permetterne un utilizzo più evoluto? Perché le nuove forme di dipendenza e malattia sociale alimentate dai social media non hanno ancora spronato i costruttori di queste stesse tecnologie ad intervenire?

La risposta che mi do è in qualche modo sconcertante non solo nella sua banalità ma anche nella sua consequenzialità: l’innovazione che le aziende della Silicon Valley mettono in atto è finalizzata a far crescere il traffico sulle loro piattaforme, piuttosto che a renderle più evolute. Queste aziende private governate da logiche finanziarie non hanno alcun incentivo a promuovere un utilizzo più limitato e più smart dei propri servizi, anche se si tratta di questi servizi di pubblica utilità. Quest’ultima ai loro occhi si misura dai ritorni generati in borsa, e se questi sono principalmente determinati dalla quantità di fatturato e di profitto, tutto il lavoro e l’innovazione saranno ad essi orientati. Laddove la responsabilità sociale di un’azienda quotata equivale a una decrescita o moderazione dei propri servizi, tale responsabilità non viene nemmeno concepita.

Se tutto questo è vero per il comparto tecnologico, non può esserlo che anche per gli altri settori economici: non credo sia esagerato concludere che – per come sono strutturati oggi – i mercati innovano più per sé stessi che per le proprie utenze. E’ infatti ben più forte l’incentivo a creare dipendenza dai propri prodotti e servizi, piuttosto che emancipazione. Posto che si sappia cosa questo può volere dire, rendere i propri consumatori più consapevoli ed evoluti potrebbe generare una decrescita degli introiti da essi generati. Il ridimensionamento di una tipologia di prodotto e di un’intera azienda potrebbe essere un evento socialmente utile se non necessario, ma l’auto-referenzialità dei mercati lavora sistematicamente alla loro conservazione. A ben vedere, così come l’industria automobilistica previene lo sviluppo di innovazioni contrarie all’automobile, l’industria farmaceutica previene lo sviluppo di innovazioni contrarie ai medicinali, e così accade in diversi gradi in tutti gli altri settori quando il loro sviluppo viene lasciato a sé stesso.

In conclusione, credo occorra prestare molta attenzione a tutto quello che ci viene proposto come innovativo, avanzato e smart: siamo proprio sicuri che l’attuale coda lunga del modello capitalista consenta all’umanità di esprimere il proprio migliore potenziale creativo?
Le tecnologie e i servizi che abbiamo generato nelle ultime decadi sono di certo sorprendenti ed “eccitanti”, ma la prossima rivoluzione industriale dovrà necessariamente votata all’utilità e all’evoluzione. Guadagnando consapevolezza di quanto si possa ancora fare, riguadagneremo anche molta speranza!

Appendice: c’è qualcosa di intrinsecamente sbagliato nell’istituzione del mercato?

Cosa sono all’atto pratico i mercati? Sono dei contesti sociali in cui lo scambio di beni e servizi, tra persone e organizzazioni di persone, è libero. Lo scambio è una forma di supporto reciproco ed è alla base di qualsiasi tipologia di società. E’ emanazione di quell’Amore, verso noi stessi e verso gli altri, di cui noi esseri umani e tutti gli esseri viventi siamo fondamentalmente costituiti.
Da questa prospettiva, quello che fa la differenza in uno scambio è lo spirito con cui esso viene intrapreso: laddove prevale la vendita (intesa come forzatura di ciò che si percepisce come vantaggio personale, anche a discapito della “controparte”) sul servizio a completo vantaggio e nel completo interesse dell’altro, allora si generano squilibri.
In uno scambio di baratto le cose erano più semplici: io faccio del mio meglio per te, tu fai del tuo meglio per me. Con l’introduzione dell’intermediazione del denaro, il rapporto di scambio si complica: il fare del proprio meglio per qualcun’altro viene in qualche modo “distratto” dal pensiero della quantità di denaro da associare al servizio. Il denaro introduce il ragionamento quantitativo e comparativo, e con esso una mentalità maggiormente orientata a soppesare costi e benefici.
Alla luce di queste premesse, non credo che la pratica e l’istituzione del mercato vada ripudiata o rinnegata in quanto potenzialmente problematica: al contrario, merita forse di essere riportata alla sua forma più autentica, creando nuove condizioni per cui gli attori agiscono ispirati e mossi da uno spirito di puro servizio e attenzione verso i bisogni dei propri interlocutori.

Immagine: UPPERCUT IMAGES VIA GETTY IMAGES

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