Filippo Dal Fiore

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Blog

“Bolle personali al campus” (Sole24Ore, Nova, 10/04/2008)

December 5, 2008
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L’America piu’ di ogni altro paese al mondo ha saputo fare di Internet
e della rivoluzione informatica uno straordinario volano di sviluppo. L’America ospita la Silicon Valley e ha regalato al mondo Google, Amazon e il Web 2.0. Si stima che i contenuti in lingua inglese contribuiscano a oltre il 50% del web.
L’America ci ha aperto le porte del mondo. Sono venuto in America a capire perche’ e in che modo.
Una domanda che mi sta a cuore e’ in che grado Internet contribuisca ad allargare i nostri orizzonti mentali ma anche a gonfiare la nostra bolla personale. Qui, con “personal bubble” qualche accademico creativo intende uno spazio in continua espansione di manifestazione dei propri interessi e della propria personalita’ per perseguire obiettivi e desideri .
Penso al contenitore per eccellenza di personal bubble: il web 2.0 di MySpace e Facebook. In una societa’ iper competitiva e individualista come quella americana, queste comunita’ soddisfano un bisogno tanto creativo quanto esibizionistico, sul principio per cui “eccomi qui, guarda quanto sono cool”.
Poi mi domando quanto tempo gli americani trascorrano giornalmente su Internet, per tenere costantemente aggiornati i propri blog e web 2.0. Lavorano già come matti, scrivono e rispondono a centinaia di e-mail e instant messages, aprono link, parlano e scrivono al telefono e al telefonino. Troveranno mai il tempo per staccare la spina? Trascorrendo buona parte del mio tempo a Boston, capisco quanto il concetto di personal bubble sia figlio dell’attuale capitalismo cosiddetto “post-fordista”, la cui parola chiave e’ personalizzazione. Cio’ che conta e’ creare ed offrire prodotti ed esperienze sempre più ritagliate sull’individualità delle persone, continuando a gonfiare la loro bolla.
Il problema è che questa societa’ già accoglie le persone in un altro genere di bolle, altrettanto totalizzanti. Si tratta delle scuole e università in cui gli americani studiano nonché delle aziende per cui lavorano, che provvedono totalmente a loro in cambio di altrettanto totale dedizione. Nell’assenza di stato sociale, aziende e scuole ti prendono per mano fin dalla tua entrata, garantendoti assistenza ospedaliera, prendendosi cura dei tuoi bambini negli asili corporate, offrendoti un alloggio e strutture sportive e ricreative all’interno dei campus.
Se in questo modo le persone si sentono maggiormente parte di una comunità con un’identità, una cultura e degli obiettivi condivisi (esemplari al riguardo le magliette che gli studenti indossano con il nome e lo stemma della propria università), pagano però lo scotto di finire per trascorrere la stragrande maggioranza del proprio tempo tra le mura del campus.
Le universita’ di MIT e Harvard ospitano l’elite della ricerca mondiale. Qui le cose effettivamente funzionano come gli esperti dicono dovrebbero funzionare. Gli studenti di MIT e Harvard , in due passi dal centro di Boston, vivono pero’ in un altro mondo: esemplare l’aneddoto di un ragazzo a cui lo psicologo consiglia terapeuticamente di camminare per la prima volta al di là del ponte che separa il campus da downtown.
L’altro lato della medaglia degli altresi’ favolosi campus universitari o aziendali americani è quindi quello che ti isolano in un ambiente familiare in cui entri in contatto esclusivamente con persone con il tuo stile di vita e le tue preoccupazioni, che parlano, si comportano e pensano sulla tua stessa lunghezza d’onda. Il resto lo ignori, a volte nella presunzione di conoscerlo già. Chi abita all’interno del campus potra’ fare a meno dell’automobile e dei mezzi pubblici (evitando di inquinare), ma perderà anche l’ultimo treno offerto dal pendolarismo per leggersi un giornale o entrare il contatto con “the world out there”.
E’ così che il campus per molti diventa prigione e il proprio argomento ultra-specialistico di studio o di lavoro l’unico filtro per leggere il mondo, con il rischio di diventare intransigenti e radicali sulle proprie idee. Complici i ritmi cosiddetti “24/7” (in attività 24 ore su 24, 7 giorni su 7, motivo di vanto nella east coast), sono in molti coloro che non hanno letteralmente il tempo per pensare ad altro, tanto meno per interrogarsi sul perché si sta facendo quello che si fa.
Mi chiedo quindi quando mai molti americani trovino occasione di allargare i propri orizzonti, impegnati come sono a coltivare le proprie bolle individuali all’interno delle bolle istituzionali e corporative a cui appartengono.
Spesso ho l’impressione che oltreoceano non esista una “società” nel modo in cui siamo abituati a pensarla in Europa, con i suoi momenti collettivi di discussione dei temi del giorno (nei bar, nei caffè o nelle piazze, in famiglia), quando piuttosto un insieme di mondi incomunicanti tra loro centrati sulle singole culture individuali e aziendali.
In definitiva, mi sembra che Internet porti con se’ questo paradosso dell’America: puoi fare di tutto, ma spesso e volentieri finisci per fare esclusivamente quello che ti e’ piu’ utile e gradito.

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