Filippo Dal Fiore

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Obama: primo politico post-moderno?

November 4, 2008
obama

A qualche ora dalle elezioni qui in America, mi sembra il momento giusto per rispolverare un mio appunto del maggio 2007, reduce dalla lettura dell’ultimo libro di Obama (The Audacity of Hope).

Parte del discorso ha a che vedere sul come restituire significato alla politica, nelle società occidentali, in un momento storico in cui i cittadini si dimostrano sempre più disillusi e disinteressati. L’intuizione popolare vuole che la colpa sia soprattutto della classe politica e dei politici. Credo che cio’ sia è vero, ma solo in parte.

Obama ci ricorda che, se da una parte molti dei politici credono sinceramente nella causa (al di là degli interessi propri o di fazione), mai come ora la politica si trova a competere per l’attenzione del cittadino. Quest’ultimo ha infatti di fronte a sé tempo limitato e un numero crescente di opzioni quanto a cose da fare: lavoro, intrattenimento, informazione.

Mi viene da dire che se il cittadino si disinteressa della politica vuol dire che in fondo sta bene e non ha nulla di che veramente lamentarsi. D’altro canto se le nostre agende sono piene di cose da fare, aumenta lo sforzo “marginale” per partecipare attivamente a una qualche causa politica o sociale. Tale sforzo aumenta anche per il fatto che viviamo in società agiate e individualiste, in cui la tentazione di viziarsi è sempre molto alta. Che il calo di partecipazione politica sia fenomeno endemico di una società benestante? Una domanda a cui i politici dovrebbero porsi, mettendosi nei panni delle nuove generazioni, è: ma chi ce lo fa fare di partecipare attivamente?

Credo che la questione del calo della partecipazione rimanga più complicata e parte della risposta vada cercata nel modo in cui la politica stessa viene proposta ai cittadini. Andando a chiedere ai cittadini stessi il perché sono sempre più disaffezionati, ho l’impressione che la risposta che registreremmo di più è “la politica è lontana dalla realtà della vita di tutti i giorni”.
Che la politica riesca ad arrivare a picchi stupefacenti di auto-referenzialità è letteralmente sotto gli occhi di tutti. E’ sufficiente un’occhiata alle prime pagine e alle home-page delle principali testate giornalistiche.

Ormai familiarizzato con il più scientifico giornalismo anglosassone, quello che mi sorprende dei nostri Corriere della Sera o Repubblica è il grado in cui questi quotidiani vengano utilizzati dai politici per parlarsi l’uno con l’altro piuttosto che ai cittadini. Il capitale sociale dell’informazione viene sistematicamente dilapidato, in cerca della visibilità necessaria per far parlare di sé. Risultato? Linguaggio in codice e gioco al rialzo su chi la spara più grossa.
Il problema è che il cittadino se ne accorge. Sempre di più. Con l’avanzare della società, avanza anche l’aspettativa del cittadino di essere rappresentato da persone del massimo livello.

Nonostante tutto, vedo segnali di cambiamento. Un cambiamento fatto da persone nuove, di un’altra generazione. Mi vengono in mente due politici: Blair e lo stesso Obama. Il primo è l’unico politico che in epoca di globalizzazione si è fatto paladino di sfide globali, non più solamente locali: povertà e fame nel mondo, climate change e (ahimè) terrorismo. Blair ha capito che alla domanda “ma chi ce lo fa fare di partecipare attivamente?” una possibile risposta è quella del crescente bisogno etico, caratteristico delle generazioni post ‘68 “senza battaglie ne’ ideali”.

Obama, invece, sembra individuare un’altra risposta: ci vuole più “micro”-politica e meno “macro”-politica, serve una politica sempre di più nei panni del cittadino piuttosto che delle istituzioni. Con il crollo del muro di Berlino e delle grandi ideologie, in società sempre più individualiste, occorre operare un radicale rovesciamento delle moderne categorie della politica. Basta ragionare in termini di stato, chiesa e partito, bensì in termini di valori, bisogni e opportunità. Sostituire l’interesse costituito con l’interesse contingente. Mettere al centro la persona dal momento che – come intuisce Thomas Freeman nel suo interessante “The World is Flat” – la globalizzazione è prima di tutto globalizzazione degli individui.

Obama si potrebbe quindi definire il primo politico “post-moderno”?
Il monito più frequente che gli arriva dai suoi sostenitori (perlomeno stando a quello che racconta nel libro) è quello di non cambiare. Come a dire che il rischio di entrare nel sistema è quello inevitabile di assumerne le caratteristiche “moderne”, forse intrinseche nella natura stessa del potere.

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