Filippo Dal Fiore

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Che cos’è una città intelligente?

April 30, 2015
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Le mie sedici ore di incontri con i ragazzi della Bologna Business School stanno per volgere al termine. In queste due settimane abbiamo considerato in lungo e in largo il tema delle smart cities o città intelligenti, ovvero dell’applicare nuove innovazioni, specie tecnologiche, ai problemi delle città. Ho proposto una visione a volo d’uccello sul tema, cercando di socializzare gli studenti con i punti di vista dei molti portatori di interesse: cittadini, amministrazioni comunali, enti finanziatori, aziende tecnologiche; tecnici delle città quali urbanisti, costruttori, architetti, trasportisti e ricercatori. Quanto più possibile mi sono attenuto alla realtà concreta delle trasformazioni vissute da alcune città, dando per esempio spazio a video Youtube con testimonianze dei protagonisti e immagini delle innovazioni in atto. Ho messo inoltre in gioco direttamente il mio vissuto professionale, raccontando ai ragazzi il retroscena dei miei passati progetti in ambito di città intelligenti, comunicando tutta la complessità e gli sforzi in buona fede che si nascondono dietro ai grandi progetti di innovazione.

Trattandosi di un argomento universale nei confronti del quale abbiamo tutti esperienza, ho voluto rendere ancora più vivida e personale l’esperienza di apprendimento chiedendo al gruppetto di ragazzi di raccontare, a turno, le eccellenze e le problematiche delle loro città: da Lagos a Hyderabad, da Manila a Portland, gli studenti hanno avuto l’opportunità di ascoltarsi e capire da sé stessi che in fondo non può esistere una soluzione unica alla sfida delle città intelligenti, per il semplice fatto che ogni città è diversa. Per quanto splendida un’innovazione possa apparire in un contesto di media città europea, essa potrebbe apparire fuori luogo se non controproducente in una metropoli africana con priorità e precondizioni completamente diverse. Come mi si addice, lo sforzo progettuale sotteso al corso è stato anzitutto uno sforzo di semplicità, facendo luce sulle complicazioni dell’argomento e ricercando le ovvietà di fondo.

Ed è così che siamo giunti all’ultima ora di questo nostro percorso: invito i ragazzi a spostarci dall’aula al giardino di Villa Guastavillani, per rilassarci in mezzo al verde e ragionare liberamente di come è andata. Chiedo semplicemente loro cosa ne pensano del corso che si sta concludendo e se hanno suggerimenti migliorativi. Un po’ so cosa aspettarmi, perché ho condotto questo esercizio anche nelle due edizioni precedenti, ma questa volta sono meno nervoso e la discussione si fa presto ricca e affascinante. A turno, prendono la parola tutti gli studenti; su mia richiesta nessuno controbatte agli argomenti via via sollevati, anche se avremmo voglia di farlo. Cerchiamo, semplicemente, di ascoltare.

E’ sempre sorprendente rendersi conto di come gli stessi contenuti possano venire interpretati e filtrati in modi completamente diversi da persone diverse. A seconda del vissuto culturale ed educativo di ciascuno, le aspettative cambiano, così come cambiano l’interesse e la capacità di cogliere i diversi strati di un contenuto, approccio o messaggio. Gli studenti, inoltre, vivono e pensano all’interno di un paradigma che è quello della scuola che stanno frequentando, ciò che determina quello che è importante sapere, come e perchè.
Dalla mia esperienza, in individui altamente formati tale background disciplinare è talmente radicato da risultare predominante finanche rispetto alla cultura e all’educazione nazionali dentro la quale lo studente è cresciuto: si potrebbero trovare maggiormente d’accordo due ingegneri di due continenti diversi, piuttosto che un ingegnere e un fisico dello stesso paese.

Dopo il giro di opinioni, passiamo al dibattito. Quello che maggiormente divide i ragazzi è il tema dell’applicabilità della conoscenza acquisita: se per alcuni l’excursus multi-disciplinare e multi-professionale sul tema città intelligenti è di per sé un massimo obiettivo formativo, altri si aspettavano più enfasi sugli strumenti e sul saper fare, per diventare progettisti di smart cities. Spiego ai ragazzi che il corso riflette il mio vissuto professionale di ricercatore e imprenditore, oltre che la convinzione dell’importanza di comprendere il punto di vista dei diversi soggetti coinvolti, per il successo collettivo di un qualsiasi progetto. Ho visto troppe iniziative smart cities ottenere risultati insoddisfacenti o subottimali, esattamente perché i proponenti, spesso tecnici mono-disciplinari, non riuscivano a cogliere le caratteristiche e bisogni degli ambienti in cui andavano a proporre le proprie innovazioni. Dalla mia esperienza, lavorare a testa alta e cercando di apprendere dagli altri, invece che imporsi su di essi, è quello che può fare realmente la differenza.

Nonostante tutto, i ragazzi hanno ragione, a loro servono anche gli strumenti. E’ una questione a mio avviso di giusta misura, e finiamo per discutere di quanta quota parte di un MBA (Master in Business Administration) possa essere dedicato agli strumenti, necessari per fare, e quanta invece all’esplorazione di insieme, necessaria per capire. Molte business school si sbilanciano a favore del pragmatismo; le discipline scientifiche stesse sono anzitutto “discipline” che raccontano di un certo modo di stare al mondo, piuttosto che comprenderlo nella sua complessità e nelle sue contraddizioni. Il rischio è che ai futuri manager, imprenditori e direttori d’azienda manchi poi la sensibilità e l’apertura mentale di capire pienamente il contesto in cui operano, con implicazioni che possono riguardare la loro etica professionale e responsabilità sociale. Privati di formazione olistica e umanistica, correranno il rischio di rimanere degli specialisti che lavorano sì con grande entusiasmo, competenza e buona fede, ma senza rendersi mai conto di alcune importanti implicazioni del proprio operato, specie nei confronti di tutto quello che è il mondo esterno alla propria azienda.

In un epoca in cui si ammirano, spesso acriticamente, i modelli anglosassoni, potremmo finire per sposare una visione esclusivamente utilitaristica della conoscenza. Io studente studio solo quello che mi serve, perché in fondo dovrei se non mi serve? Non mi interessa tutto quello che può essere una città intelligente, non mi interessa quello che fanno o pensano gli altri, ma solo quello che posso fare io per diventare il miglior progettista possibile di città intelligenti. Sembra che l’utilitarismo e le mono-specializzazioni nutrano l’egoismo e l’autocentratura delle persone.

Abbiamo spesso poca consapevolezza dell’importante ruolo giocato dai modelli educativi nel creare la società in cui ci troviamo poi tutti a vivere. Suo malgrado, molto mondo ad oggi sembra andare nella direzione di società individualiste più orientate al tornaconto personale che al bene comune. Un’educazione esclusivamente tecnica e acritica può avere il vantaggio di mantenere i giovani più ingenuamente ottimisti e orientati al fare, ma li irrigidisce anche su una strumentazione che può andare bene oggi e in un determinato sistema di cose, ma domani o altrove, chissà. Ed è qui che si gioca la grande differenza tra il modello italiano, più olista e umanista, e quello americano, più riduzionista e tecnico, con la necessità che l’uno si arricchisca dell’altro. La micro-bellezza e la macro-bellezza insieme, l’una in armonia nell’altra. Una poesia è tale tanto per la qualità intrinseca delle parole quanto per il linguaggio che le lega le une alle altre, le parole stesse sono concepite per il linguaggio e il linguaggio per le parole.

Bologna non sarà mai Boston, così come Boston non sarà mai Bologna: è giusto e necessario che sia così. Mancano solo cinque minuti alla chiusura del corso, ma ora io e i miei studenti siamo tutti e d’accordo nel reputare dannoso e controproducente il confronto continuo con il “benchmark” americano, con le Harvard e gli MIT del mondo. Piuttosto, invito questi ragazzi che dai cinque continenti hanno scelto proprio l’Italia per il loro MBA, a concedersi un momento importante per sé stessi e per il proprio futuro: una bella passeggiata, in totale calma e senza alcuna aspettativa, nel centro della città che li sta ospitando. Per comprendere piano piano la straordinaria grandezza del Rinascimento e dell’Umanesimo, per riappropriarsi di quello che l’umanità aveva già capito cinquecento anni fa, e che oggi in molti sembrano avere dimenticato.

Il corso è ora terminato. Forse non mi sono mai sentito tanto orgoglioso e grato verso il mio Paese.

Immagine: ©pynomoscato

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