Filippo Dal Fiore

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Blog

La festa della comunità

June 2, 2015
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Questi sono giorni speciali per la nostra comunità. Si festeggia infatti San Camillo, e come ogni anno noi abitanti del quartiere ci riversiamo alla festa della comunità organizzata dalla parrocchia locale. Ci raduniamo tutti, ragazzi famiglie e anziani di ogni partito e colore, per celebrare la vita comunitaria che nel nostro rione è particolarmente vivace. Sembra di stare in un paesello dentro la città, reso sempre aperto e vivace dal flusso di studenti universitari, professionisti, e volontari delle strutture assistenziali e ospedaliere presenti.

Alla festa si respira un clima positivo di fratellanza e impegno sociale.
Si pensa a stare bene insieme e si parla poco di politica, anche se in molti siamo amareggiati per la recente rielezione dell’attuale governatore regionale. Il modello di comunità che propone è localista e chiuso in sé stesso, involutivo piuttosto che evolutivo. E’ costruito sul linguaggio della paura, principalmente nei riguardi dell’immigrazione e della disoccupazione, temi di attualità di fronte ai quali la maggior parte dei rappresentanti politici sembra molto impreparata.

Quando la percezione del mondo esterno si fa cacofonica e minacciosa, complici i media onnipervasivi, chiudersi in se’ stessi e’ una risposta naturale. Le persone si stringono intorno a comunità geografiche, ma isolandosi tra simili animati delle stesse paure ne diventano ancor piu’ vittime. Chi ha salde radici in un luogo ne trae nutrimento e amore, quel coraggio che ti consente di accogliere ed educare il diverso da te. Chi ha radici salde tratta con rispetto il proprio ambiente naturale, così come la propria storia: a discapito di tutto quello che scriviamo e affermiamo sull’autenticità culturale, ogni cultura per definizione rappresenta una forma ingegnosa messa in atto dall’uomo per adattarsi all’ambiente esterno in continua evoluzione, rimescolando e facendo propri contributi di varia provenienza e natura. All’apice del suo splendore Venezia è anche una delle città piu’ cosmopolite del mondo. Allo stesso modo il cognome piu’ diffuso ad oggi a Padova è Schiavon: si tratta di persone i cui antenati provenivano dalla Schiavonia o Slavonia, regione dell’attuale Croazia orientale. Come ci ricorda lo storico Francesco Jori, la storia ci insegna fin troppo bene che le roccaforti esclusive vivono in paranoia e prima o poi soccombono, mentre l’umanità evolve e prospera attraverso processi inclusivi di integrazione.

Quello che ci raccontano in pochi, inoltre, è che la percepita minaccia ha in sé una proprietà curativa nei confronti delle relative paure.
Un contatto reale con gli immigrati è quello di cui la nostra società ha piu’ profondamente bisogno, per sbloccarsi dal suo stato di incancrenimento in una prospettiva sempre piu’ superficiale nei confronti della vita. Il mondo artificiale che ci siamo creati intorno ci sta facendo perdere il contatto con la realtà, perchè ci allontana dal buon senso: siamo tutti così impegnati a controllare le previsioni e a lamentarci del brutto tempo, da dimenticarci che la pioggia è una benedizione per la terra. Questa ovvietà mi è stata detta da un’amica nigeriana che aiuta i clienti del mio supermercato a caricare le borse della spesa in macchina: sono queste le amicizie di cui abbiamo piu’ profondamente bisogno, se solo trovassimo il coraggio di guardare le cose per come stanno.

E’ quindi necessario spingerci oltre le associazioni mentali che coltiviamo attraverso i media, per vedere la storia nella sua completezza. Prendere contatto con l’altro lato della medaglia equivale a riprendere contatto con la realtà, per esempio quella del generoso contributo offerto dagli immigrati e dal mondo oltre-confine alla “nostra” società. Penso al tè asiatico e al caffè sudamericano che bevo ogni giorno. Penso ai giochi made in china di mio figlio. Penso alle badanti moldave dei nostri anziani, agli operai senegalesi delle nostre fabbriche e ai raccoglitori di ortaggi ganesi dei nostri campi. Penso alle prostitute e agli spacciatori extra-comunitari al servizio dei miei concittadini, loro malgrado. Penso ai miei capi di abbigliamento tessuti in Bangladesh, al grano ucraino della pasta che mangio ogni giorno, alla cellulosa canadese della carta, e al legno scandinavo dei mobili. Penso alla tecnologia statunitense e sudcoreana di cui non riusciamo a fare a meno. Penso alla sabbia sahariana di cui è fatto il cemento delle nostre case, e al gas russo che le riscalda.
Comprendere le cose nella loro interezza risveglia la mia gratitudine.

E’ solo perché non abbiamo ancora imboccato la strada giusta che questa ci appare lunga e tortuosa. Il grande sforzo va fatto all’inizio, per trovare quel cammino evolutivo che è anche cammino d’amore capace di acquietare e addolcire tutti. E’ un cammino di cultura, quella però con C maiuscola che non crea confini, esclusioni, specializzazioni, posizioni o pregiudizi, ferite che in quanto perpetuate agli altri rimangono anche dentro noi stessi. Una Cultura multidisciplinare e allo stesso tempo universale nella sua semplicità.

Immagine: ©santagatasantilario.it

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