Filippo Dal Fiore

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Riconoscere gli idoli del capitalismo moderno

July 6, 2017
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Penso all’economia di oggi, e penso a tre precetti consacrati dalla scienza economica e dagli addetti ai lavori: innovazione, tecnologia, profitto. In un contesto sempre più globale, competitivo e dinamico, questi concetti si ergono a fondamenti imprescindibili di qualsiasi strategia aziendale: è indispensabile che un’impresa innovi il più possibile, adotti quanta più tecnologia possibile, per generare in ultima istanza quanto più profitto possibile. Diventa un mantra, ma smettiamo di chiederci il perché e il come tutto ciò sia veramente utile e necessario. Rischiamo di rendere assoluti valori che in realtà sono relativi, e che quando proposti acriticamente possono danneggiare lo stato delle cose invece che contribuire alla sua reale evoluzione.

Prendo in esame i tre imperativi singolarmente, cominciando dall’innovazione.
Diamo spesso per scontato che apportare un cambiamento ai propri prodotti, servizi o significati sia di per sé sufficiente per migliorarli. Ci lanciamo di fretta e furia nell’operazione innovativa con gli strumenti e le assunzioni che abbiamo a disposizione, senza un’adeguata consapevolezza di ciò che farà veramente la differenza, per chi, e con quali ripercussioni. Ci innamoriamo di un aspetto tecnico del problema, allontanandosi da quella visione a tutto tondo e multi-disciplinare che ci consente sempre di ritornare all’essenziale e alla semplicità.

Così facendo rischiamo di rendere i nostri prodotti più complicati del necessario, introducendo delle modifiche che sfidano le leggi del buon senso e mettono a repentaglio la funzione primaria di quello che proponiamo.
Propongo un esempio tratto dall’esperienza personale: lo scorso mese mi sono ritrovato a guidare un’automobile a noleggio in Sicilia, una vettura che aveva la caratteristica di essere molto bassa e avere l’abitacolo costruito su probabile ispirazione di una macchina di F1. Si percepiva uno sforzo innovativo a livello di design, ma il risultato era che io da guidatore, piuttosto incredibilmente, non riuscissi a vedere dove terminasse il cofano dell’automobile. Non solo non mi mancava la sicurezza di affrontare curve e dossi, ma la vista completa della situazione era ulteriormente ostruita da uno specchietto retrovisore in grande sporgenza che oscurava la parte centrale del già ridotto campo visuale. Come se non bastasse, mancava qualsiasi tipo di ripiano o cassetto per appoggiare occhiali da sole, cellulare e quant’altro. Risultava evidente che la progettazione di questa automobile avesse eluso qualsiasi considerazione non solo di ergonomia e di usabilità, ma anche di buon senso comune. L’innovazione “a tutti i costi” aveva fatto perdere ai progettisti il contatto con la realtà.

Passo ora a una riflessione sul secondo imperativo, quello tecnologico. Quello di cui mi rendo conto spesso è che il progettista di tecnologia potrebbe operare senza un’adeguata consapevolezza dell’effettiva utilità della stessa. La mancanza di visione olistica e multi-disciplinare potrebbe portare il tecnico a progettare per sè stesso piuttosto che per il mondo esterno, che si assume a propria immagine e somiglianza ma che in realtà non si conosce (perché si vive confinati dentro il proprio specifico universo professionale). Quando non governata, la passione per risolvere una sfida tecnologica o esplorarne la frontiera può allontanare il progettista dal buon senso comune, portandolo a sottovalutare aspetti sociali destinati ad assumere prima o poi un’importanza fondamentale. Uno dei libri più in voga al MIT di Boston ai tempi della mia permanenza si intitolava What technology wants – Quello che la tecnologia vuole – e dipingeva un mondo tecnologico dotato di vita propria che detta le regole del gioco all’uomo (e non viceversa come una persona di buon senso affermerebbe).
Sul tema degli effetti collaterali indesiderati delle nuove tecnologie, potrei riportare molti esempi ma per semplicità penso ai nostri telefoni cellulari dentro cui le aziende tecnologiche stipano qualsiasi applicazione possibile e immaginabile, nell’assunzione dogmatica che “tutto per tutti è bello”. Dopo gli entusiasmi iniziali, ci stiamo invece rendendo più conto che tale sovrabbondanza tecnologica crea molta disutilità sociale, oltre che utilità, allontanando molte persone dal senso della giusta misura.
Quanto tempo ed energie investiamo in Whatsapp, Facebook, Google o Twitter? Per quale tipo di contenuti e a scapito di quali altre attività? Siamo consapevoli dei danni che possono arrecare questi strumenti quando male o troppo utilizzati?
L’utilità e il senso ultimo delle tecnologie si misurano sul come e quanto esse vengono usate, non in quanto tali. Mosse dalla volontà di dominare culturalmente e commercialmente il mondo, le aziende della Silicon Valley continuano a proporci un’ideologia, non una verità, seppure in buona fede. Nella loro visione mono-disciplinare e “monolitica” sono convinti di fare solo del bene al mondo, ma in realtà appare sempre più evidente che la prossima fase evolutiva dell’umanità includerà anche e soprattutto il recupero di quello che la tecnologia ci ha in parte sottratto.

Arrivo infine al terzo imperativo, quello del profitto o differenza tra costi e ricavi. Lo prendo in esame da ultimo, ma non perché sia meno importante, anzi. L’imperativo del profitto è all’origine dell’economia per come la conosciamo oggi, perché “fare più soldi possibile” è sia norma implicita che regola scritta di tutti gli istituti economici moderni (lo si impara dai manuali di economia). Non sempre è stato così, e in altre epoche storiche l’espressione “massimizzare il profitto” non si sarebbe nemmeno compresa. Come già descritto in numerosi articoli di questo blog, un approccio massimamente opportunistico e gigantistico alla gestione aziendale produce fin troppe disutilità sociali, perché la propria crescita avviene a spese degli altri e dell’ambiente, e non insieme a loro. Imprenditori e amministratori dovrebbero avere a cuore molte altre cose oltre che il profitto, a pari livello, ma il sistema suggerisce o impone loro di elevare la bottom line, il numero in calce al bilancio, a misura ultima del proprio successo. Ancora una volta si tratta di un valore relativo che viene artificialmente elevato a valore assoluto, di un’ideologia travestita da verità, di un modo di fare le cose reputato superiore agli altri ma senza adeguata consapevolezza di tutte le alternative possibili.

In conclusione, affinchè l’agire economico porti ad un’autentica evoluzione umana, occorre affrontarne apertamente le assunzioni, i dogmi, gli idoli del momento abbracciati più per moda che con consapevolezza.
Siamo altresì chiamati a costruire una visione più veritiera di noi esseri umani, di come funzioniamo e di quello di cui abbiamo bisogno per essere felici, spalancando le porte delle scienze sociali all’obiettività e al buon senso.

Immagine: particolare dal dipinto “La Scuola di Atene” di Raffaello

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