Filippo Dal Fiore

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Quanto bene ci conosciamo?

May 26, 2021
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Siamo giunti anche quest’anno alla conclusione del progetto Icaro, l’iniziativa promossa da Fondazione Golinelli che prevede la collaborazione di studenti e studentesse  di diverse facoltà universitarie a sfide concrete promosse dalle aziende del territorio.

A differenza delle scorse edizioni, quella di quest’anno prevede che tutti i lavori vengono condotti interamente a computer, servendosi di Google Meet per tutte le interazioni tra gli studenti e con le imprese. Noi progettisti e facilitatori siamo chiamati a fare lo stesso, e ci ritroviamo a valutare possibili corsi d’azione e prendere decisioni sul da farsi con persone che in qualche caso non abbiamo mai conosciuto di persona.

Il tema dello smart working è sulla bocca di tutti, ma non è facile valutare obiettivamente e complessivamente le implicazioni di lavorare e interagire interamente a distanza. Il dibattito è giustamente focalizzato su che cosa si guadagna e che cosa si perde: se da una parte guadagniamo la flessibilità di lavorare da casa e (in qualche misura) in modo più consono ai nostri tempi, dall’altra perdiamo l’opportunità di interagire di maniera più ampia e trasversale con le altre persone. Se è vero che le riunioni online sembrano spesso più ordinate e bilanciate nella partecipazione rispetto a quelle in presenza, è altrettanto vero che lo schermo del computer sembra mantenerci confinati in una dimensione di costante operatività, in cui è difficile condividere o costruire qualcosa di più con le altre persone. La presenza corporea e spirituale delle persone è ridotta alla dimensione di una figurina sullo schermo, e l’energia che entra in gioco nelle relazioni è, nel bene e nel male, minore.

Sono gli studenti stessi di Icaro a farci notare quanto riduttivo possa diventare il lavoro prolungato all’interno di un team in cui non si ha mai l’opportunità di incontrarsi dal vivo. La relazione potrebbe essere vissuta sul piano puramente strumentale, inducendoci a percepire l’altro da noi esclusivamente come un qualcuno che ci dà qualcosa e ci chiede qualcos’altro, un contributore a quel progetto che offre alla nostra relazione l’unica ragione d’essere. In altre parole, si rischia di ridurre l’intera persona allo specifico ruolo o contributo che essa può apportare, più di quanto normalmente già si faccia nei contesti di lavoro o di studio.

Questa osservazione mi offre l’opportunità di riflettere sull’importanza non solo di incontrare le persone in presenza, ma anche e soprattutto di creare occasioni affinché queste stesse persone possano conoscersi a fondo, come esseri umani prima ancora che come colleghi o compagni di corso. Quante volte, nelle aziende così come negli altri contesti collaborativi, ci troviamo radunati per l’avvio di un progetto senza darci l’opportunità di approfondire la conoscenza di chi sta seduto intorno al nostro tavolo, reale o virtuale che sia?
Prendere consapevolezza della meravigliosa unicità di ciascuna persona – in termini di storia personale e professionale, competenze, interessi, passioni, timori, motivazioni, sogni per il futuro – non può che agevolare una relazione più autentica, più completa e più rispettosa, oltre che potenzialmente più promettente.

Quante volte ci troviamo rinchiusi nella nostra percezione di ruolo e di status – assegnatici dalle organizzazioni a cui apparteniamo e dai nostri titoli – percependo gli altri come inferiori, superiori o in competizione con noi? Offrirci l’occasione di conoscere le persone a tutto tondo, nella loro umanità comune alla nostra, non può che riportare noi stessi e la relazione alla corretta dimensione, ovvero una dimensione più libera, più arricchente, più spontanea, più creativa.

“Qui posso essere me stesso/a”: tra tutte le affermazioni del questionario Great Place To Work, somministrato in aziende di tutti i settori e di tutto il mondo,  è questa quella  maggiormente correlata all’indicatore Trust Index calcolato come media dell’intero questionario. Questo significata che le organizzazioni in cui si sta meglio, perlomeno in base al nostro modello, sono quelle in cui i collaboratori si sentono liberi di esprimere la propria persona nella sua interezza, senza nutrire troppi timori nei confronti degli altri,  ma al contrario sentendosi apprezzati nella propria unicità e complessità.

E’ per questo, a mio avviso, che è così importante prevedere incontri, conversazioni, attività ed escursioni condivise che in qualche modo si collochino al di fuori del contesto operativo dentro cui le persone sono abituate a percepirsi e ad interagire.
Grazie a quelle aperture e a quei confronti autentici, le persone stesse potranno più facilmente aprirsi: quel legame di comprensione e fiducia non potrà che agevolare qualsiasi compito o progetto intraprenderanno insieme.

POST SCRIPTUM (riflessione in calce)
Di questi tempi nei contesti organizzativi si parla molto di valorizzazione delle diversità, spesso sotto il cappello tematico della diversity & inclusion. Mi chiedo: sarebbe forse più benefico e appropriato utilizzare il termine unicità?
A ben vedere, infatti, noi esseri umani non siamo diversi, nella nostra essenza, ma senza dubbio siamo unici in quello che esprimiamo.
Inoltre, ragionare in termini di diversità può equivalere a ragionare “per difetto”, perchè associamo il sentirci diversi al venire esclusi da un gruppo di appartenenza. Non sentendoci amati, ci percepiamo come completamente separati e isolati dagli altri, quando invece, a livello essenziale, non è così: siamo uguali a loro, e siamo in tutto e per tutto insieme a loro nella nostra avventura di vita.

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